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La Via dei Frati

Camminare con il cuore

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I Frati per la Via

Fratel Biagio Conte

Fratel Biagio Conte
(Palermo, 16 settembre 1963 – Palermo, 12 gennaio 2023)

Eremita, povero tra i poveri, missionario. Sono queste alcune delle parole che potrebbero descrivere Fratel Biagio Conte. Scomparso nel 2023 ha lasciato nel cuore di tanti la gioia dell’amore di Dio e l’urgenza di aiutare i più poveri costruendo a Palermo la sua Missione di Speranza e Carità.

Ha percorso chilometri di strada con i suoi sandali e si è fermato tra gli altri in tanti dei luoghi che sono attrversati dal Cammino della Via dei Frati.

Uomo tra gli uomini, stintilla dell’Amore di Dio, ci piace pensare che camminando sui suoi passi possiamo sentire anche noi la Gioia che non lo abbandonava mai, anche nei momenti di sofferenza.

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Beato Guglielmo Gnoffi

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Il beato Guglielmo Gnoffi   nacque  a Polizzi Generosa nel 1256.

Di nobile famiglia, appena quindicenne, si ritirò in preghiera nei ruderi dell’ex monastero normanno dei SS. Cosma e Damiano, nelle vicinanze delle grotte. Non appartenne ad alcun ordine religioso ma ebbe almeno cinque proseliti. Elemosinò in tutti i paesi delle Madonie, divulgando il Vangelo. A lui è attribuita il restauro del santuario della Madonna dell’Alto. Durante il quinto anno di vita eremitica raggiunse Gonato, nei pressi di Geraci Siculo, dove edificò una chiesetta vi restò per ben 11 anni.

Attorno a lui si formò una comunità di asceti che lo seguì a Castelbuono, dove, con l’aiuto di Alduino Ventimiglia, conte di Geraci, costruì la chiesa e l’eremo, che, nel 1288, fu denominata di Santa Maria del Parto, presso la contrada un tempo chiamata “Favare” e attualmente denominata contrada san Guglielmo. Operò miracoli e dispensò grazie,  fino alla fine della sua vita che avvenne a Castelbuono il 16 Aprile 1317.

Nel 1366, il conte Francesco II Ventimiglia, fece erigere l’Abbazia di Santa Maria del Parto, sul luogo in cui fu sepolto.

Il suo corpo, riesumato nel 1500, fu messo dentro un’urna d’argento che si trova custodita in una nicchia della Matrice Nuova di Castelbuono. Nel 1613 furono redatti gli atti deliberativi alla beatificazione da parte del Vescovo di Cefalù.

E’ compratono del comune di Castelbuono e l’ urna con i suoi resti mortali vengono portati in processione ogni anno durante la festa di Sant’Anna il 26 Luglio, assieme all’urna argentea con il teschio della Santa e all’immagine della Madonna del Carmelo.

Chi sono i Frati per la Via

Questuanti, pellegrini, predicatori, scultori, santi,  mistici, missionari : i Frati hanno avuto un ruolo rilevante nella storia della Sicilia e il loro passaggio ha lasciato segni inequivoabili della importanza del loro ruolo.

Conventi, chiese ma anche proprietà terriere si trovano in tanti paesi della Via, da Caltanissetta con il suo Convento dei Cappuccini dedicato a San Michele al Convento dei riformati di Petralia Sottana  a quello di Castelbuono e il grosso centro ancora attivo di Gibilmanna.

In ogni paese c’era un “ospizio” un ricovero per i frati che, lontani dal loro convento, vivevano lì per il periodo della questua estiva, che non era semplice mendicare, ma era vero e proprio lavoro nei campi accanto ai contadini ed alla povera gente, con cui si faticava fianco a fianco per avere come ricompensa “l’obolo” che il proprietario del podere o del feudo lasciava loro.

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Frate Innocenzo da Petralia

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Scarsissime e frammentarie le notizie sulla biografia di Frate Innoccenzo da Petralia, mentre la sua produzione artistica è stata ampiamente riconosciuta come caratterizzata da  uno stile personale e intimo.

A. Giuliana Alaimo  afferma che al secolo il suo nome fu Giovanni Calabrese. La storiografia successiva tuttavia non ha accolto tale identificazione.

Nato sulla fine del XVI secolo (forse il 1591), fu religioso appartenente all’ordine dei Frati Minori Osservanti e scultore di crocefissi lignei policromi come il conterraneo, confratello e contemporaneo, fra’ Umile da Petralia la cui fama ha oscurato a lungo l’opera di Innocenzo.

In effetti nell’area delle Madonie, all’inizio del XVII secolo, era fiorente l’attività dell’intaglio del legno che produsse numerose manifestazioni artistiche di rilievo come la produzione della famiglia di scultori dei Li Volsi originari di Nicosia. I rapporti artistici di fra’ Umile e di fra’ Innocenzo non sono al momento chiari, anche se secondo scritti di poco posteriori Innocenzo era allievo di Umile.

Altre fonti riferiscono che i due confratelli erano allievi nello stesso periodo del padre di frate Umile, quel Giovan Tommaso Pintorno, oroiginario di Geraci e molto attivo nelle due Petralie come faber lignarius.  Le attività artistiche dei due scultori sono riferibili ad un unico modello iconografico: l’immagine di Cristo crocefisso caratterizzata da grande drammaticità per l’enfasi data alle ferite, ai lividi ed al sangue, all’espressione del dolore. Un modello artistico che quindi deve intendersi sopraordinato all’opera dei due artisti e derivante dalle direttive culturali della Controriforma, dai temi iconografici prediletti dai francescani fin dal Medioevo, e soprattutto dalla cultura spagnoleggiante prevalente nella Sicilia seicentesca.

In definitiva, pur con differenze, esiste una continuità stilistica fra i due francescani, tra i quali dovette esistere un rapporto di comunanza artistica.

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Crocefisso di Castel Belici di Frate Innocenzo

 

Innocenzo, al contrario di Umile, lasciò la Sicilia e operò a lungo, nel quarto decennio del secolo, soprattutto nelle Marche ed in Umbria, in luoghi che probabilmente visitò, anche se, a partire dal 1637, produsse molte opere a Roma, nel convento di San Francesco a Ripa, per le varie committenze francescane dell’Italia centrale. Nel 1637, a Roma, scolpì un crocefisso che venne rifiutato per l’eccessiva crudezza del realismo. L’opera di Innocenzo si distingue, infatti, per la resa particolarmente realistica delle ferite da cui sgorgano fiotti di sangue, accentuando il pathos complessivo dell’opera.

Nell’ultima parte della sua vita, intorno al 1640, ritornò in Sicilia. A Palermo gli viene attribuito il completamento, mediante la stesura della coloritura, dell’ultimo crocefisso di fra’ Umile nel convento di sant’Antonio, rimasto incompleto per la morte del confratello avvenuta nel 1639.

Le fonti collocano la sua morte il 20 dicembre 1648 a Palermo.

Pochissime opere di Innocenzo si distaccano dal tema del crocefisso: l’Ecce Homo della chiesa madre di Furnari che ricalca anch’esso un modello di fra Umile, e la Madonna col Bambino nella chiesa del Carmine di Sambuca (originariamente nel convento di sant’Antonio a Palermo).

Degni di nota nel percorso della Via dei Frati i due crocifissi che si trovano a Isnello, del 1625, presso la Chiesa di Santa Maria Maggiore e il “Signuri di Bilici”, mirabile crocifisso ligneo scolpito nel 1638, conservato presso il Santuario di Castel Belici, a pochi chilometri da Marianopoli.

Fonti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Innocenzo_da_Petralia

FRATE INNOCENZO DA PETRALIA…. | TERRAMIA – Il blog di … Michele Vilardo

Frate Umile da Petralia

Frate Umile da Petralia

 

Giovan Francesco Pitorno meglio noto come frate Umile da Petralia, (Petralia Soprana, 1600Palermo, 9 febbraio 1639) è stato uno scultore e religioso italiano.

Figlio di un legnaiuolo, si formò in un ambito artigianale, nelle botteghe di intagliatori delle Madonie e forse a Palermo.

Il padre Giovan Tommaso Pintorno da Geraci è “maestro di legname”, la madre Antonia Buongiorno appartiene a nobile casato. Il giovane Giovan Francesco cresce in una famiglia numerosissima costituita da 16 figli, la pianificazione di un matrimonio combinato condiziona le sue scelte e trova nella vocazione religiosa la ragione di vita.

Entrò nell’ordine dei Frati Minori Osservanti nel 1623, prendendo il nome di Umile, ed iniziò un’attività di scultore in legno specializzandosi nei crocefissi policromi.

Nel novembre 1623 il flagello della peste nera imperversa nell’isola in due ondate d’epidemie successive diffuse nel (16241626), (16291631) e miete numerose vittime. Fu proprio lo scontro con la dura realtà della malattia e della morte a determinare in modo decisivo il grande realismo delle sue sculture.

La presenza di scultori in legno tra i francescani, sia prima che dopo fra’ Umile, fa pensare ad un’attività di scuola artistica all’interno dell’ordine in cui Giovan Francesco abbia potuto completare la propria preparazione artistica.

La vena artistica sviluppata nella bottega paterna, maturata a Palermo, successivamente consolidata nell’ambito di una produzione permeata dallo stile di artisti a lui territorialmente e ecclesiasticamente noti: i Li Volsi di Nicosia famiglia di scultori statuari, i Ferraro di Giuliana famiglia di grandiosi decoratori a stucco, i Lo Cascio famiglia di intagliatori di Giuliana e Chiusa Sclafani, i Gagini famosissima famiglia di scultori e marmorari rinascimentali della corrente lombardo-ticinese-siciliana, il milanese gesuita Gian Paolo Taurino abile scultore in legno.

La sua biografia risulta piuttosto oscura, anche a causa di una tradizione ricca di aneddoti miracolistici tramandata da scrittori francescani, desiderosi di far apparire la sua opera come frutto di un dono divino.

Realizzò le sue opere vagando per tutta la Sicilia, seguendo le numerose commissioni che gli arrivavano. Negli ultimi anni, forse malato, si fermò a Palermo nel convento di Sant’Antonio dove formò una scuola con numerosi discepoli.

Frate Umile da Petralia è sepolto nella Chiesa del Convento di Sant’Antonio da Padova o Sant’Antonino di Palermo.

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Il Crocefisso di Frate Umile della Chiesa Madre di Petralia Soprana

Opera

Personalità ascetica e penitenziale la sua opera si caratterizza per uno stile personale di grande drammaticità che enfatizza la sofferenza ed il dolore e che ebbero una grande fortuna nella Sicilia del XVII secolo. Il forte espressionismo del volto, l’enfasi dato alle ferite, ai lividi ed al sangue, richiamano opere nordiche, ma sono perfettamente inserite nelle direttive culturali della Controriforma, nei temi iconografici prediletti dai francescani fin dal Medioevo, e nella cultura spagnoleggiante della Sicilia seicentesca.

La sua opera è legata da comunanza di temi e di espressione con quella del conterraneo frate Innocenzo da Petralia.

Nella sua opera ripete incessantemente l’unico modello iconografico del Cristo morto in croce, dalle prime opere (Petralia Soprana) fino a quelle ultime della maturità (Collesano, Milazzo, Bisignano) che rappresentano una figura slanciata e smaterializzata (Chiesa di San Giuseppe e convento di sant’Antonino a Palermo).

I suoi crocifissi si trovano in numerose chiese degli ordini religiosi che all’epoca, in Sicilia, avevano praticamente il monopolio della committenza artistica. Così molti paesi siciliani possono vantare un’opera di fra’ Umile (Aci Catena, Agira, Agrigento, Aidone, Caltagirone, Caltanissetta, Campobello di Mazara, Castrofilippo, Catania, Cerami, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Enna, Ferla, Gangi, Messina, Mistretta, Mojo Alcantara, Mussomeli, Naro, Palermo, Piazza Armerina, Pietraperzia, Randazzo, Salemi) ma anche alcune in Calabria (Cutro, Bisignano), Campania (Afragola e Polla) e Basilicata (Miglionico).

Una trentina di opere sono certe, altrettante attribuite e molte quelle riferibili alla sua scuola. Secondo la tradizione orale popolare assommerebberò a 33 i Crocifissi realizzati, ipotesi sostenuta da un presunto voto o fioretto attribuito al Frate scultore itinerante. È pure vero che per abilità, competenza, piena dedizione, dalla commissione alla realizzazione e consegna di alcuni capolavori, trascorre un arco temporale di appena dieci giorni.

L’attività itinerante di Frate Umile suscitò un vasto movimento artistico all’interno dell’ordine, parallelamente attorno alla sua figura si sviluppa una scuola e si formano talenti di grosso calibro: il concittadino e confratello Frate Innocenzo da Petralia, il trapanese Frate Benedetto Valenza, Frate Stefano da Piazza Armerina attivo in Lazio (Carpineto e Tivoli), Frate Vincenzo da Bassiano, Frate Angelo da Pietrafitta attivo nel Meridione (Calabria, Basilicata, Puglia e Lazio), il palermitano Francesco Gallusca presente a Polizzi Generosa, Frate Giovanni da Reggio Calabria, Frate Diego da Careri attivo a Napoli e presente in Lazio, Lombardia e Sicilia.

Nella sua produzione compaiono anche alcuni rari Ecce Homo (Mesoraca, Dipignano e Calvaruso) o Cristo alla colonna (Militello in Val di Catania) con gli stessi caratteri dei crocefissi. Unico esempio di Santo scolpito nel 1642 dal Pintorno fu il simulacro di San Calogero eremita a Petralia Sottana venerato come patrono del paese.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Umile_da_Petralia

Frate Francesco Giarratana

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Fra’ Francesco, al secolo Vincenzo Giarratana, nacque a Caltanissetta il 4 dicembre 1570 da Francesco e Laura Grassotto: fece la vestizione nell’Ordine Cappuccino nel 1588 e morì a 75 anni nel convento nisseno il 4 dicembre 1645.

Frate Luigi scriveva che era stata fatta istanza al Padre Guardiano «che voglia mettere quel santo corpo di Fr. Francesco di Caltanissetta in loco separato, perché siccome in vita ha fatto diversi miracoli, così speramo che li farà dopo morto».
Una vita all’insegna dei miracoli, dunque, quella del frate nisseno, stante quanto tramandato dai suoi confratelli.

Quello più noto  rimane l’apparizione di San Michele.

Era il 1625 e la peste continuava a mietere vittime in tutta l’Europa. Anche in Sicilia la terribile piaga aveva preso piede e l’unico modo per impedire il contagio era, oltre che appellarsi alla clemenza divina con preghiere e processioni di penitenza, quello di proibire l’entrata nelle città ai poveri appestati, a costo anche di privarli della loro vita.

Ma l’8 Maggio di quell’anno, come sembra essere riportato anche nelle “Notizie cronologiche spettanti al convento dei Cappuccini di Caltanissetta”, ad impedire l’ingresso in città di un appestato non fu un uomo qualunque, ma l’Arcangelo Michele. Fu il frate Francesco Giarratana a vedere per primo il santo con la spada sguainata sulla porta della città (detta dei Cappuccini, costruita appositamente per controllare l’accesso alla città) che cacciava l’uomo e lo confinava a morire in una grotta nel luogo detto “Calcare”, in contrada Sallemi. I religiosi richiamati dalle grida del frate videro, o credettero di vedere anch’essi, la figura di un militare con la spada che cacciava via un appestato. Poco dopo apparve allo stesso frate l’Arcangelo in persona che rivelò in modo più distinto l’avvenuto miracolo e quindi la salvaguardia di Caltanissetta dalla peste. San Michele impose quindi al frate di riferire il tutto al Magistrato della città e all’Arciprete in modo tale che da quel momento in poi fosse riconosciuto come protettore di Caltanissetta. A riprova dell’avvenuto miracolo avrebbero inoltre dovuto recarsi nella grotta insieme ai giurati per verificare con i loro occhi la presenza dell’appestato ormai deceduto.

Proprio sul sito di quella grotta fu quindi eretta una piccola chiesa in onore dell’Arcangelo Michele. Ma il fervore per il santo man mano venne meno e la piccola chiesetta cominciò ad essere abbandonata fino a quanto non ne crollò addirittura il tetto. Ma un’altra terribile piaga rinvigorì la devozione dei nisseni per il santo, quando il colera che nel 1837 decimò la Sicilia intera risparmiando la città di Caltanissetta. I cittadini intravidero in questo nuovo miracolo la mano santa del loro patrono, e per questo vi fu una pregevole gara a riedificare la chiesetta con l’offerta di beni e lavoro manuale da parte di tutti coloro che vollero gratificare il santo. La chiesa fu ricostruita così come la si conosce oggi, con la sua facciata di pietra di Sabucina a rendere omaggio al patrono della città.

Per venerare il santo fu costruita una statua in legno dallo scultore Stefano Li Volsi (di Nicosia), tutt’oggi esistente e collocata alla destra dell’altare maggiore della chiesa madre. “La leggenda narra dei problemi legati alla fattura della testa, che l’artista – nell’impossibilità di saperla realizzare con le dovute caratteristiche soprannaturali – dopo le sue preghiere avrebbe addirittura trovato già bell’e fatta «ad opera degli angeli”. L’8 maggio di ogni anno, a memoria del miracolo che liberò Caltanissetta dalla peste, viene portata in processione la statua per le vie della città dalla chiesa madre fino alla chiesa di San Michele, dove permane per più di una settimana. Il santo viene inoltre celebrato il 29 settembre di ogni anno, giorno in cui Caltanissetta si ferma per glorificare il suo santo patrono. In concomitanza dei festeggiamenti, che durano un’intera settimana fra feste e processioni, ha luogo la tradizionale fiera di San Michele che però non affonda le sue radici ai primi del 1600, anno dell’apparizione del santo, ma bensì fin dal 1550, quando la fiera che si svolgeva sin dal medioevo alla fine di settembre prima della nuova aratura, prese proprio il nome del santo.

Ma cos’altro fece di straordinario il frate durante la sua esistenza? Seguiamo sempre i documenti riproposti da Mendolia Calella.
Da testimonianze conservate nell’Archivio provinciale della Curia dei Cappuccini di Bologna si apprende che nel 1611 fra’ Francesco, in viaggio da Cammarata a Caltanissetta, incontrò un pover’uomo che aveva una bestia gravemente ferita, con i visceri di fuori: al che il frate la guarì applicandole al ventre la reliquia di San Felice da Cantalice.

Un altro episodio miracoloso era accaduto nel 1586, quando l’allora giovane Vincenzo si era recato a Monreale per chiedere l’obbedienza di entrare nell’Ordine Cappuccino. In viaggio su un carro di buoi, il futuro frate venne colpito ad un occhio dal corno di uno degli animali, rimanendo ferito in modo tale da non poter più condurre il carro che ad un tratto, privo di guida, cadde in un precipizio con tutti i buoi. Lui ne uscì praticamente illeso e dopo pochi giorni anche l’occhio guarì miracolosamente.

Nel 1605, sulla strada da Girgenti a Racalmuto, fra’ Francesco e il confratello p. Giammaria da Caltanissetta furono chiamati in casa da un ammalato che per i forti dolori si contorceva nel letto e che si raccomandò alle preghiere dei due frati. Questi gli impartirono la loro benedizione e, tornati in convento, pregarono per l’uomo il quale, l’indomani, si presentò loro perfettamente guarito.

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Ma uno dei “miracoli” che ha contribuito anch’esso a creare un alone di santità attorno al religioso nisseno è quello tramandato dal cronista cappuccino p. Pellegrino da Forlì che negli Annali dell’Ordine riferisce un episodio con protagonista fra’ Francesco in giro per la questua: «Una lionessa, sprigionatasi dal serraglio del Duca di Montalto, entrò furibonda e minacciosa nella città di Caltanissetta, percorse alcune vie e giunse nel mezzo della piazza, ruggendo e girando gli occhi furibondi e sanguigni (…). I cittadini, impauriti all’ingresso di quell’ospite malaugurato e terribile, si chiusero nelle loro case (…). E mentre essi guardavano dalle finestre, ecco comparire in quella piazza deserta un Cappuccino. Era fra’ Francesco…». Accortosi del felino, ecco dunque il nuovo “miracolo” del frate secondo questa narrazione: «Come dunque la vide, con passo franco e disinvolto si mosse verso di essa, chiamandola in nome di Dio. La lionessa a quell’invito autorevole abbassò il capo superbo, addolcì l’occhio feroce e si accostò ai piedi di lui, quasi lambendoli per rispetto. Allora fra’ Francesco sgridandola dolcemente (…) le annodò al collo il suo cingolo; e così tenendola per mano la rimenò docile al suo serraglio. Tutti, trepidando osservarono il miracoloso spettacolo; e il Duca stesso che dal balcone del suo palazzo adocchiava quel fatto, esultava in cuor suo, giudicandolo un prodigio».

A conferma della veridicità di tale fatto c’è anche un riscontro nel manoscritto delle monache Benedettine di Santa Croce (citato dallo storiografo della chiesa nissena Francesco Pulci), anche se non viene citato l’anno.
Il saggio di Mendolia Calella prosegue con altre testimonianze riferite a fra’ Francesco impegnato nell’assistenza ai malati di peste a Palermo dove il morbo era scoppiato nel 1624. Si prosegue, poi, col riferimento all’apparizione nello stesso anno di San Michele a Licata sempre al cospetto del frate nisseno.

Questi, come detto, si spense nel 1645: «Il suo cadavere – scrisse il p. Pellegrino da Forlì – esposto al pubblico fu oggetto di grande venerazione; e chi tagliava l’abito e chi un pezzo di fune, chi i capelli e di altre cose che fossero attorno alla bara, per averne una memoria».
Il suo bastone, nei secoli successivi, sarebbe stato usato come oggetto taumaturgico e portato in giro tra gli infermi per invocarne la guarigione.

Fonti:

https://milocca.wordpress.com/2015/04/04/il-frate-che-ammansi-la-leonessa/

http://piccolaatene.altervista.org/chiese/san-michele

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